«Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli dei mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi e lotta al disagio»

Sono queste le parole con le quali cominciava la petizione promossa da Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie – oltre un milione di firme raccolte – per chiedere l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, nella convinzione che una svolta nella lotta alla criminalità organizzata potesse avvenire soltanto unendo il piano repressivo a quello sociale e culturale, espropriando i patrimoni accumulati dalle organizzazioni criminali con le loro attività illecite e “restituendo il maltolto” alla società.

Oggi, dopo quasi trenta anni dall’approvazione della quella legge – la 109 del 1996 – grazie alle buone pratiche di riutilizzo sociale realizzate da associazioni, cooperative sociali e parrocchie, i beni confiscati, da espressione del potere mafioso, si sono trasformati in beni comuni: una Italia bella, che ha riempito di vita luoghi che erano stati invece luoghi di morte.

LA LEGGE ROGNONI-LA TORRE

Il punto di partenza – ossia che il contrasto alle mafie, per essere vincente, non poteva limitarsi agli arresti, ai processi, alle condanne ma doveva anche aggredirne attraverso la confisca il patrimonio economico base del loro potere criminale – lo aveva ben chiaro il parlamentare siciliano del Partito Comunista Italiana Pio La Torre, che insieme al democristiano lombardo Virginio Rognoni, firmò la proposta, poi diventata la legge 646 del 1982 – meglio conosciuta come legge Rognoni-La Torre – che introduceva nel Codice Penale il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, il famoso 416 bis, e la possibilità di confiscare i beni dei mafiosi.

Viene approvata dal Parlamento il 13 settembre 1982, a seguito dell’omicidio dello stesso Pio La Torre e del suo collaboratore Rosario Di Salvo – accaduto il 30 aprile 1982 – e del prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre dello stesso anno assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo.

Un passo fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata: la legge dispone, infatti, che «nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego».

DOPO LE STRAGI DI MAFIA ECCO LA LEGGE 109/96

Una legge alla quale tuttavia occorreva aggiungere un ulteriore tassello: che fine avrebbero fatto i beni tolti ai mafiosi? È a questa domanda che Libera – dopo la stagione delle stragi mafiose: le uccisioni di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992), che anticipano le stragi di Firenze e Milano del 1993, e gli attentati a Roma contro le chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano – prova a dare una risposta sulla base di una nuova rivoluzionaria intuizione: i beni confiscati devono essere restituiti alla collettività attraverso il loro riutilizzo sociale.

Proprio con questo obiettivo, dunque, appena nata Libera avvia una raccolta di firme a sostegno di una petizione popolare che, grazie al coinvolgimento di oltre un milione di cittadini, porta all’approvazione di un’altra legge fondamentale, la 109 del 1996 (a formulare il testo normativo fu in prima persona l’ex magistrato del pool antimafia di Palermo Giuseppe Di Lello Finuolo allora deputato), che stabilisce come i beni confiscati non possano avere altra funzione se non quella sociale: devono tornare cioè alle comunità, alle quali sono stati sottratti con la violenza, e diventare servizi, scuole, strumenti e luoghi di lotta al disagio.

Il 7 marzo 1996 la legge viene approvata in sede deliberante (cioè senza il passaggio in aula) e a legislatura finita, perché il presidente del Consiglio Lamberto Dini si era dimesso a gennaio. Oggi quelle norme sono incluse nel Codice antimafia, il decreto legislativo 159 del 2011, che ha riordinato le leggi in materia definendo meglio anche il ruolo dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, nata nel 2010.

Si realizza un passaggio fondamentale: i beni vengono resi l’unico strumento di contrasto alle mafie in grado di unire e tenere insieme più dimensioni. Significa che i beni confiscati sono al tempo stesso: «un atto di giustizia, perché andiamo a colpire le mafie nel portafoglio; una iniezione di fiducia nelle Istituzioni, perché dimostriamo di essere più forti di loro; uno strumento di economia e di lavoro, perché riusiamo quei beni facendoli tornare al bene comune; un’opportunità di riscatto e dignità per i territori nei quali si trovano; luoghi dall’altissimo valore simbolico, in grado di dimostrare che le mafie sono tutt’altro che invincibili».

«RACCONTIAMO IL BENE 2024»

Oggi – secondo la fotografia scattata dal dossier «Raccontiamo il bene» di Libera – sono ben 1.065 i soggetti diversi impegnati nella gestione di beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, il 7% in più rispetto allo scorso anno, addirittura il 36% in più in cinque anni.

Sono associazioni, cooperative sociali, mondo del volontariato, diocesi, parrocchie protagonisti della trasformazione da beni in mano alle mafie – frutto di sangue e sporchi affari – a beni comuni e condivisi.

La regione con il maggior numero di realtà sociali che gestiscono beni confiscati alle mafie è la Sicilia con 285, segue la Campania 170, la Lombardia con 151, la Calabria con 149, la Puglia con 123, il Lazio con 54, il Piemonte con 41. La conferma di una presenza mafiosa ormai nazionale.

Dai dati raccolti emerge che più della metà delle realtà sociali è costituita da associazioni di diversa tipologia (563) mentre le cooperative sociali sono 232 alle quali si aggiungono 5 cooperative di lavoro. Ci sono poi 14 associazioni sportive dilettantistiche, 31 enti pubblici (tra cui aziende sanitarie, enti parco e consorzi di Comuni che offrono dei servizi di welfare sussidiario dati in gestione a soggetti del terzo settore), 39 associazioni temporanee di scopo o reti di associazioni, 62 realtà del mondo religioso (diocesi, parrocchie e Caritas), 33 fondazioni private e di comunità, 18 gruppi scout e 31 istituti scolastici.

La ricerca analizza anche le attività svolte. Nel 56,8% riguardano welfare e politiche sociali, nel 25,6% promozione culturale e turismo sostenibile, nel 10% attività legate all’agricoltura e ambiente, nel 4,7% produzione e lavoro.

Nella ricerca Libera ha ricostruito la tipologia di immobili gestiti dai soggetti gestori. Il 34,7% sono appartamenti, abitazioni indipendenti, immobili; il 19,6% ville, fabbricati su più livelli e di varia tipologia catastale, palazzine; il 18,3% terreni agricoli, edificabili e di altra tipologia; il 9,5% locali commerciali o industriali, capannoni, magazzini, locali di deposito, negozio, bottega, uffici. La dimostrazione di quanto gli affari e gli investimenti dei clan siano diffusi in ogni settore economico.

BENI CONFISCATI, SEGNALI PREOCCUPANTI DALLA POLITICA

«Oggi, dopo 28 anni dall’approvazione della legge 109 – commenta Tatiana Giannone, responsabile nazionale Beni Confiscati di Libera – possiamo scrivere con convinzione che il primo obiettivo è stato raggiunto: i beni confiscati, da espressione del potere mafioso, si sono trasformati in beni comuni, strumenti al servizio delle nostre comunità. Più di 500 associazioni di diversa tipologia, oltre 30 scuole di ogni ordine e grado che usano gli spazi confiscati come strumento didattico e che incidono nel tessuto territoriale e costruiscono economia positiva. Un’economia che tutti noi possiamo toccare con mano e che cambia radicalmente le nostre vite. Poter firmare un contratto di lavoro vero, poter usufruire di servizi di welfare laddove lo Stato sembra non arrivare, poter costruire il proprio futuro nel mondo del lavoro: tutto parla di un Paese che ha reagito alla presenza mafiosa e che con orgoglio si è riappropriato dei suoi spazi». Ma, avverte Giannone, «raccogliamo segnali preoccupanti del mondo della politica: un attacco costante alle misure di prevenzione, tentativi di privatizzare i beni confiscati e piegarli alla logica dell’economia capitalista, una gestione delle risorse dedicate piuttosto confusionaria. Non possiamo accettare che ci siano passi indietro su questo».

La quantità dei beni confiscati, del resto, è enorme. Nel dossier Libera ha elaborato i dati dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (al 22 febbraio 2024) dove sono 22.548 i beni immobili destinati ai sensi del Codice antimafia (+14% rispetto al 2023) mentre sono 19.871 gli immobili ancora in gestione ed in attesa di essere destinati. Sono invece 3.126 le aziende destinate (+77% rispetto al 2023) mentre sono 1.764 quelle ancora in gestione. Anche per questi dati è in testa la Sicilia sono 7.727 e 8.656 ancora in gestione. Segue la Calabria con 3.137 e 1.880 e la Campania con 3.106 e 3.416. Nel Nord spicca la Lombardia con 1.590 beni immobili destinati mentre e 1.552 ancora in gestione. Cambia di poco la geografia regionale sul fronte delle aziende. In Sicilia sono 551 le aziende destinate mentre sono 913 quelle ancora in gestione. Segue la Campania con 330 e 669, il Lazio con 259 e 449, la Lombardia con 135 e 238, la Puglia con 118 e 129. Dati che fotografano con chiarezza gli enormi investimenti mafiosi e di come sia ancora assolutamente necessario applicare l’insegnamento di Giovanni Falcone: «Segui il denaro e troverai la mafia».

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